23 Settembre 2019

Il rapporto di lavoro negli Enti Religiosi: il licenziamento

Nell’articolo “Il rapporto di lavoro negli enti religiosi: le sanzioni disciplinari” è stato affrontato un argomento spinoso per molte realtà ecclesiastiche: la gestione del rapporto nel caso di disobbedienza o negligenza o altre più gravi condotte del dipendente.

Con questo articolo, affrontiamo più nello specifico la sanzione massima prevista dall’ordinamento italiano: il licenziamento.

***

Per quanto di piccole dimensioni, un Ente Religioso (ER) si avvale solitamente di personale dipendente.

E, come accade in ogni tipo di rapporto contrattuale, anche in quello lavorativo ci posso essere inadempienze più o meno gravi commesse dalla controparte (che in questo caso è, per l’appunto, il lavoratore).

Così, occorrerà porre attenzione alle norme di diritto del lavoro che regolano questi momenti critici del rapporto. Non solo: occorrerà anche distinguere tra lavoratori che possono essere considerati semplici aiuti domestici (e quindi per essi varranno le più semplici regole del licenziamento del lavoratore domestico) da quei dipendenti che prestano la loro opera per alcuni tipi di attività (come ad esempio la ristorazione o l’attività alberghiera) che l’ER affianca alle sue attività principali (e in questo caso avremo dei dipendenti assimilabili a quelli di un’impresa commerciale).

Infatti, sia in una casa che in un’azienda si possono verificare situazioni in cui è opportuno cessare un determinato contratto di lavoro, licenziando il dipendente.

Le ragioni che rendono opportuno il licenziamento possono dipendere o dal lavoratore (che ad esempio non fa bene il suo lavoro) o dal datore di lavoro (nelle attività commerciali, ad esempio, quando si è deciso di chiudere una sede alberghiera) o ancora da circostanze estranee sia all’uno che all’altro.

Così, possiamo distinguere tra licenziamenti la cui natura è soggettiva (e quindi dovuti al comportamento del lavoratore) e licenziamenti che hanno invece natura oggettiva (e quindi dovuti a scelte del datore di lavoro, come il trasferimento o la chiusura di una sede, oppure a fatti che esulano dalla volontà delle parti – come un infortunio che rende inabile al lavoro il dipendente).

LA DISCIPLINA DEL CODICE CIVILE: L’APPARENTE PRINCIPIO DI LIBERTÀ DI LICENZIAMENTO

Occorre innanzitutto precisare che in Italia una disciplina generalissima del licenziamento è contenuta anche nel codice civile.

Infatti, all’art. 2118 tale codice prevede che “ciascuno dei contraenti può recedere dal contratto di lavoro a tempo indeterminato, dando il preavviso nel termine e nei modi stabiliti dagli usi o secondo equità”.

Inoltre, la norma dispone che “in mancanza di preavviso, il recedente è tenuto verso l’altra parte a un’indennità equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso”.

Come si vede, tale norma generalissima prevede, in teoria, la libertà di licenziamento nell’ordinamento italiano. In realtà, altre norme specifiche del diritto del lavoro regolano la possibilità di licenziare in modo molto più rigido, che solo negli ultimi anni è stato stemperato dal legislatore con la serie di provvedimenti chiamati Jobs Act.

Inoltre, dove l’art. 2118 parla di “usi” e “preavviso” occorre fare riferimento alla contrattazione collettiva, cioè agli accordi che i sindacati dei lavoratori stringono con le associazioni dei datori di lavoro per decidere i requisiti minimi di un contratto – che così, ad esempio, come preavviso possono prevedere un periodo di tempo diverso a seconda del settore produttivo di riferimento.

Venendo alla normativa specifica del licenziamento, occorre rilevare che lo stesso è la sanzione massima per il dipendente e che, quindi, è trattato specificamente dallo Statuto dei lavoratori (l. n. 300/1970), il quale prevede un’apposita procedura:

  • innanzitutto, occorre che il comportamento vietato o scorretto sia contestato al lavoratore per iscritto, mediante un’apposita lettera di contestazione disciplinare;
  • in particolare il datore deve immediatamente contestare al dipendente la condotta sanzionabile. In questo caso, peraltro l’avverbio “immediatamente” non deve intendersi alla lettera. A seconda del contesto – grande azienda o piccola realtà, “scoperta” del fatto che interviene successivamente al fatto stesso etc. – può passare qualche giorno tra la violazione e la contestazione;
  • a questo punto, il dipendente ha cinque giorni per presentare le sue osservazioni. Si tratta di una vera e propria “difesa” del lavoratore dalle “accuse” mosse dal datore. Nelle sue osservazioni, il lavoratore può anche chiedere di essere sentito dal datore, che quindi fisserà un appuntamento per poter dare la possibilità al lavoratore di spiegare le sue ragioni anche a voce;
  • dopo le osservazioni e eventualmente la riunione per la difesa orale – e comunque decorsi cinque giorni dal ricevimento della lettera di contestazione iniziale, il datore può scegliere se e quale sanzione comminare che può essere, per l’appunto, anche il licenziamento in caso di condotta grave;
  • nella lettera di licenziamento andranno specificate le ragioni che hanno portato a licenziare il lavoratore (ad esempio: si è scoperto che il dipendente rubava);
  • nella stessa lettera dovrà anche essere dato il preavviso, che – a seconda di cosa prevede il contratto collettivo (CCNL) – può andare da pochi giorni a diversi mesi.

È quindi importante far precedere la scelta sul licenziamento del lavoratore dall’iter appena descritto, a pena di nullità del licenziamento (il lavoratore potrebbe ricorrere al tribunale anche solo per motivi di procedura, cioè per motivi che riguardano il “come” del licenziamento e non il “perché”).

LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA

A questo punto, è il caso di segnalare che vi è un’ipotesi in cui il lavoratore non ha diritto al preavviso.

Si faccia, infatti, l’esempio di un lavoratore che tenga comportamenti gravissimi, come l’aggressione a un confratello o una consorella dell’ER.

Oppure, il caso in cui siano commessi dei furti reiterati e di grande entità in danno dell’ER.

Tali casi rientrano tutti in una speciale tipologia di licenziamento: il licenziamento per giusta causa.

Infatti, si è di fronte a condotte talmente gravi che non consentono, neppure temporaneamente, il prosieguo del rapporto di lavoro (ad esempio per la possibilità concreta che l’aggressione o il grave furto si ripetano, o per la completa compromissione del rapporto fiduciario).

Tale licenziamento segue una condotta così grave che è valido anche per i lavoratori che si trovano in una situazione “protetta”: ad esempio, anche i lavoratori malati possono essere licenziati per giusta causa durante la malattia. Addirittura, possono essere licenziate per giusta causa anche le lavoratrici in maternità.

LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO SOGGETTIVO

Meno grave, è il caso del licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

In questo caso, infatti, si applica la regola generale del periodo di preavviso. Cioè, in definitiva, in questo caso il lavoratore commette significative violazioni dei suoi doveri contrattuali, ma non talmente gravi da rendere impossibile, anche temporaneamente, la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Tra gli esempi che possono essere fatti, vi sono l’insubordinazione del dipendente verso i suoi superiori e l’assenza ingiustificata prolungata per oltre quattro giorni consecutivi.

Come si noterà, pur essendo comportamenti ingiustificabili, gli stessi sono meno pericolosi per l’ER rispetto a quelli previsti per giusta causa.

Quindi, per quanto meritevole di licenziamento, il lavoratore avrà comunque diritto al periodo di preavviso previsto dal Contratto collettivo (ad esempio, nel CCNL Turismo, i periodi variano da un minimo di 15 giorni ad un massimo di sei mesi, a seconda dell’anzianità di servizio del lavoratore e del suo livello di inquadramento).

LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO

Veniamo ora ad un licenziamento che non è “colpa” del lavoratore, ma che può essere comminato in quanto si viene a creare una situazione in cui il datore non può più avvalersi del dipendente.

Infatti, è possibile che per fatti inerenti all’attività produttiva o all’organizzazione stessa del lavoro non ci sia più posto per il dipendente dell’ER.

Si pensi all’introduzione di un nuovo macchinario che svolga in tutto e per tutto i compiti del lavoratore, con conseguente soppressione del posto di lavoro. Vi è poi il caso che il lavoratore stesso perda, nel corso del rapporto, quei requisiti per i quali era stato assunto e cioè non sia più in grado di svolgere le mansioni alle quali è adibito. Si pensi, a tal proposito, all’inabilità fisica dovuta a un infortunio, oppure, alla perdita di alcuni requisiti indispensabili per la posizione lavorativa ricoperta (come la patente di guida per un autista).

Naturalmente, anche in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo si applica il periodo di preavviso previsto dal CCNL.

DIVIETO DI LICENZIAMENTO

Come accennato nel paragrafo sulla giusta causa, vi sono dei casi in cui vi è una speciale tutela del lavoratore contro il licenziamento.

Innanzitutto è vietato il licenziamento discriminatorio. Non è infatti possibile licenziare un dipendente per motivi di etnia o di credo politico. Invece, più delicato è il discorso che va fatto per gli ER in ordine all’orientamento religioso del dipendente. Pur dovendosi esaminare caso per caso, è infatti possibile dire che, nell’ipotesi di condotte non compatibili con la fede cattolica, resta fermo il divieto di licenziamento per quei dipendenti che sono disimpegnati in compiti neutri dal punto di vista ideologico, mentre tale divieto non si applica a quei lavoratori (che quindi in linea generale è possibile licenziare) le cui mansioni hanno invece una componente ideologica.

Sono poi vietati i licenziamenti in frode alla legge. Tale è il licenziamento che, pur avendo formalmente i requisiti di regolarità, è invece comminato per uno scopo vietato dalla legge. Si pensi ad esempio ai licenziamento per giustificato motivo oggettivo (l’acquisto di un macchinario nuovo che sostituisce il lavoratore) che però si rivela essere pretestuoso, perché in realtà il macchinario può fare solo una porzione minima del lavoro fatto dal lavoratore, che resta necessario.

Altro divieto riguarda come visto le lavoratrici in maternità. Dal concepimento sino al primo anno di vita del bambino infatti è fatto divieto di licenziamento, salvo, sempre come visto, il grave caso di licenziamento per gusta causa.

Lo stesso divieto si applica durante il periodo in cui il lavoratore si stia rimettendo in sesto da un infortunio o da una malattia (il cosiddetto periodo di comporto). Anche in questo caso, peraltro, è possibile licenziare il dipendente nell’ipotesi di giusta causa.

IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO DA PARTE DEL LAVORATORE

Dopo che il lavoratore è stato licenziato, è possibile che si attivi per impugnare il licenziamento, arrivando a instaurare una vera e propria vertenza in Tribunale nei confronti dell’ER.

Occorre dire però che, dopo le modifiche del Jobs Act, non vige più in Italia la regola della reintegrazione sul posto di lavoro. In sostanza, anche se il lavoratore dimostrasse l’ingiustizia del licenziamento, non avrebbe comunque diritto a riprendere il suo posto.

Pertanto, dopo il Jobs Act, la regola per il lavoratore licenziato ingiustamente sarà il pagamento da parte del datore di un’indennità che vada a “risarcirlo” del torto subito. La misura dell’indennità è fissata in non meno di 4 e non più di 24 mensilità dell’ultima retribuzione.

Quindi, oggi l’indennità è diventato la regola.

Tuttavia, vi sono ancora i seguenti casi in cui invece il lavoratore ha ancora diritto alla cosiddetta tutela reale, e cioè alla reintegrazione nel proprio posto di lavoro:

  • Lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015, da datori con più di quindici dipendenti;
  • nel caso di licenziamento verbale (e non per iscritto);
  • nel caso di inesistenza del fatto materiale per il quale il lavoratore è stato licenziato (ad esempio il datore “inventa” le accuse e sulla loro base procede a licenziare);
  • infine, il licenziamento discriminatorio.

IL MIGLIOR MODO PER LA SALVAGUARDARE IL DATORE DI LAVORO: LA «SEDE PROTETTA»

Onde evitare le problematiche viste sopra, è preferibile nel caso di fine rapporto di lavoro non pacifica, prevedere comunque un accordo col lavoratore di modo che lo stesso non faccia causa all’ER.

Tali accordi, però, non possono essere semplicemente redatti per iscritto e poi controfirmati dal lavoratore. C’è infatti bisogno che il consenso del lavoratore sia dato in una sede protetta, in cui siano garantiti i suoi diritti.

In mancanza, l’accordo fatto in forma diversa rimane impugnabile dal dipendente anche dopo il licenziamento.

Così, la maniera migliore per salvaguardare l’ER da un lavoratore indisciplinato o addirittura violento, è quella di sottoscrivere un accordo dinanzi alla Direzione Territoriale del Lavoro, un vero e proprio organo pubblico che fa diventare inscalfibile l’accordo sottoscritto.

In questo modo, l’ER non avrà da temere in futuro per pretese ulteriori da parte del lavoratore basate sul licenziamento o sul rapporto di lavoro in generale.

Ci dev’essere, naturalmente, la volontà di entrambe le parti di addivenire ad un accordo. In genere, ci si accorda nel senso che, oltre al pagamento delle mensilità dovute e del TFR, viene accordata al dipendente una somma in più a titolo di risarcimento o indennizzo.

IL LAVORO DOMESTICO

Venendo ora ai dipendenti che invece è possibile inquadrare quali collaboratori domestici (ad esempio perché preposti esclusivamente all’assistenza dei membri dell’ER), occorre dire che per tale personale si applica il principio di libertà di recesso.

Cioè, vige la regola non solo di libertà di dimissioni da parte del dipendente, che può (salvo preavviso) interrompere il rapporto quando vuole, ma anche la regola di libertà di licenziamento che (sempre salvo preavviso) può essere comminato liberamente dal datore di lavoro.

Naturalmente, anche in questo caso il preavviso non è dovuto nel caso di licenziamento per giusta causa.

La normativa, a questo punto, prevede specifiche tempistiche per il preavviso, basate: sull’anzianità di servizio, sul numero di ore settimanali e sull’esistenza o meno di una casa indipendente concessa dal datore al lavoratore.

Procedendo, in via schematica, possiamo infatti vedere che il datore di lavoro ha i seguenti termini di preavviso da rispettare nel caso voglia procedere a licenziamento del dipendente:

Rapporto di durata fino a 5 anni: 15 giorni di preavviso

Rapporto di durata superiore ai 5 anni: 30 giorni di preavviso

Nel caso di orario settimanale inferiore alle 25 ore lavorative a settimana

  • rapporto fino a 2 anni di durata: 8 giorni di preavviso
  • rapporto oltre 2 anni di durata: 15 giorni di preavviso

Nel caso di lavoratore che abiti in una casa indipendente fornita dal datore:

  • fino a 1 anno di rapporto: 30 giorni di preavviso
  • oltre 1 anno di rapporto: 60 giorni di preavviso

Da parte sua, invece, il dipendente ha obbligo di preavvisare il datore di lavoro delle proprie dimissioni secondo i medesimi termini appena visti per il datore, ma ridotti del 50%.

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Se avete bisogno di assistenza nella gestione di un licenziamento, non esitate a contattarci, scrivendoci a info@dikaios.international o chiamamdoci al +39 06 3671 2232, saremo felici di aiutarvi.

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